i segni invisibili, di Aldo Presta





Da dove iniziare un discorso sui caratteri tipografici? O piuttosto, perché si dovrebbe fare un discorso su di essi? Non basta scegliere tra i tanti della lista dei software di scrittura e tirarne fuori qualcuno?

conversazione con Aldo Presta
Ora Esatta, in Calabria Ora, martedì 21 marzo 2006



Provare a parlare di caratteri, di alfabeti stampati, è un po' come trovarsi nella condizione descritta da Poe nella Lettera rubata, ci si misura con qualcosa di così evidente da risultare quasi invisibile.
Le lettere disegnate e organizzate in un qualche tipo di sequenza, mediano incessantemente il nostro rapporto con la realtà. È fin troppo semplice enumerare le occasioni in cui questo avviene: le parole che stiamo pronunciando e che assumono la forma dei caratteri utilizzati da questo giornale sono l'esempio più vicino. Eppure, anche tra gli addetti ai lavori, emerge una disarmante ingenuità di fronte alle regole minime della tipografia, quella che gli esperti chiamano la “determinazione consapevole della forma di un testo: i caratteri che la compongono, la loro modulazione e la messa in pagina”.
Si ha verso questo argomento lo stesso atteggiamento passivo che si ha verso la fotografia, verso la sua presunta oggettività e naturalità. Ecco si può e si deve fare un discorso sui caratteri, sulla loro natura, perché non sono neutri. Sono invece un elemento espressivo al pari degli altri strumenti che si utilizzano nella progettazione della comunicazione visiva.

Come si sceglie il carattere giusto?

Ogni progetto di comunicazione richiede, forse contiene già, un proprio carattere, coerente con l’insieme del progetto stesso. I caratteri hanno una forma, un’architettura, un’identità, un proprio corpo.
Se scelgo tra i tanti sistemi di segni, quel lettering, ho già scelto il primo livello espressivo di quel lavoro. Alcuni caratteri sono forti e neri, altri chiari e delicati. Alcuni si leggono benissimo a piccole dimensioni, altri nelle stesse condizioni diventano macchie nere. La scelta è dettata dall’uso, da ragioni funzionali e/o espressive.
Se restiamo nell’ambito editoriale, è consigliabile orientarsi verso un numero limitato di famiglie di caratteri, preferibilmente una per i titoli, una per le didascalie e una per il testo corrente.
Magari evitando di restare fermi alle scelte di default dei sistemi di impaginazione. Seppure designer dal rigore estremo, come Fronzoni, sono riusciti a produrre progetti straordinari utilizzando sempre e solo un carattere, l’Helvetica, disegnato da Miedinger nel 1957.

Da dove arrivano le forme degli alfabeti che utilizziamo, e come si disegna un alfabeto?

Disegnare un carattere vuol dire inserirsi in una tradizione viva, ricca e antica.
I segni tipografici che utilizziamo, la cosiddetta scriptura artificialis, cioè i caratteri a stampa, così come li conosciamo derivano dalla pratica calligrafica, su pergamena, su carta, o epigrafica, la scrittura incisa su pietra. I primi tipografi, si sono ispirati a quelle forme. Sono nati così gli alfabeti che si sono evoluti fino a oggi. 
Il disegno si svolge in uno spazio diviso in tre parti, uno centrale, che poggia su un’ideale linea di base, una parte discendente e una ascendente.
In questo spazio prendono forma i diversi tipi e segni, quelli maiuscoli e quelli minuscoli, tutto costruito secondo rigorose leggi geometriche temperate e corrette dalle leggi della percezione visiva.
Elementi principali sono innanzitutto le proporzioni tra le parti, quella centrale e le discendenti e le ascendenti, e poi l’occhio del carattere, cioè lo spazio centrale, la forza d’asta, cioè lo spessore del pennino ideale con cui viene disegnato. 
La somma delle varie parti, in altezza, dà quello che chiamiamo il corpo del carattere, che è quindi una dimensione immaginaria dello spazio in cui si sviluppano gli elementi dei diversi caratteri.
In concreto era invece la misura del tassello di legno, con il carattere fuso in piombo, per la composizione tipografica tradizionale.

Come ci si orienta nella selva dei caratteri a disposizione?

La varietà di alfabeti, implica la necessità di definire una qualche forma di catalogazione, per orientarsi e scegliere. Una delle morfologie più utilizzate è quella di Aldo Novarese, che nel 1957 ha individuato 10 tipologie: lapidari, scritti, medioevali, ornati, veneziani, egiziani, transizionali, lineari, bodoniani, fantasie.
Le classificazioni partono dalla tipologia di tratto terminale del carattere. Che può essere diritto e geometrico, come l’Helvetica, oppure con le grazie, cioè con i tratti terminali orizzontali alla fine delle aste, come il Times, disegnato nel 1931 da Stanley Morison.
La qualità degli elementi terminali, che possono avere diverse forme e disegno, determinano l’appartenenza una certa tipologia piuttosto che a un’altra.

Quando un carattere è leggibile?

La leggibilità è legata a due fattori distinti. Il primo riguarda la buona percezione delle singole lettere cioè un corretto disegno dei caratteri. Il secondo riguarda la corretta composizione del testo cioè l’avvicinamento delle lettere, la giusta spaziatura tra parole, la proporzione della giustezza, cioè la lunghezza del rigo, e la giusta interlinea. 
Tutto ciò deve consentire il rapido scorrimento dello sguardo facilitando la lettura, senza inciampi.
Un carattere leggibile è un carattere che ha buone proporzioni tra le varie parti, che ha la forza d’asta giusta, un occhio ben aperto e proporzionato.
Alcune ricerche sulla leggibilità suggeriscono di utilizzare caratteri graziati per i testi lunghi, poiché i tratti orizzontali aiutano l’occhio a seguire il rigo di testo. Discorso inverso per i testi sulle pagine web, in cui è invece sconsigliato l’uso dei caratteri graziati in corpi piccoli. 
Gli alfabeti ben disegnati sono molti, riconducibili però a un numero limitato di famiglie di provenienza. Che derivano dai prototipi antichi disegnati, ad esempio, da Aldo Manuzio, nel XVI secolo, da Garamond, da Bodoni, per restare tra i caratteri con le grazie. O la già citata serie dell’Helvetica, o i caratteri disegnati da Eric Gill, come il Gill San Serif, e così via.

Una disciplina viva, quindi. Quali i suoi protagonisti? Esistono caratteri che rappresentano il nostro tempo?

Esiste una produzione contemporanea molto viva, spesso associata a grandi progetti comunicativi come i sistemi di identità visiva di eventi, le olimpiadi ad esempio, o progetti funzionali come la segnaletica di aeroporti o metropolitane, o naturalmente legati al mondo editoriale. L’altro campo in grande movimento naturalmente è quello del web.
Esistono type designers che continuano a dialogare con la tradizione e a produrre segni modernissimi e di grande qualità come Adrian Frutiger, Herman Zapf o Gerard Unger, di cui si apre una grande mostra a Milano il 16 marzo. 
Non credo però che esista un carattere più moderno di altri. Ci sono, infatti, progetti di comunicazione modernissimi che utilizzano caratteri ostentatamente classici.

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