Fiumefreddo Bruzio, Venerdì 31 agosto, ore 11.30


Questa mattina alle 11.30 nel castello di Fiumefreddo Bruzio, incontro con Federico Fubini (vicedirettore de Il Corriere della Sera) e presentazione del libro "La maestra e la camorrista. Perché in Italia resti quello che nasci", Mondadori, 2018. Altrimenti detto - come scrive Aldo Cazzullo - "i ricchissimi sono rimasti ricchissimi; i ricchi, ricchi; il ceto medio, medio; i poveri, poveri; i poverissimi, poverissimi".
Altro che ascensore sociale, Fubini si basa su un’inchiesta condotta in Campania, tra “Carbonara”, il quartiere più giovane di Napoli, e Mondragone, provincia di Caserta, uno dei paesi più poveri d’Italia. Fubini ci ha poi spiegato che Carbonara non è il vero nome del quartiere, ma uno pseudo-toponimo (come "Montegrano" stava per Chiaromonte ai tempi di Banfield), segno evidente di un’etica della ricerca. I dati vengono poi comparati con quelli di una scuola di Padova, il liceo Parini di Milano e il collegio Ghislieri di Pavia. Conclude Fubini: «In sostanza, più sei immerso in un contesto di successo, più ti fidi. E viceversa. Il successo nutre la fiducia e la capacità di fidarsi nutre il successo. Diffidare invece secerne la tossina della paralisi». Purtroppo, Mondragone è la regola, il Parini è l’eccezione. In realtà il discorso di Fubini è ancora più raffinato, mimetico com'è delle ricerche di Edward Banfield sul suo anno passato a Chiaromonte in provincia di Potenza, ricerche che verranno pubblicate nel 1958 con il titolo: "Le basi morali di una società arretrata".  Si tratta del libro che vara la famosa definizione di «familismo amorale». Banfield la diceva così: «Il fatto che i montegranesi siano prigionieri del loro ethos incentrato sulla famiglia, e che per questo non siano in grado di agire di concerto o per il bene comune, è un impedimento fondamentale al loro progresso economico o di altro tipo». Di bruciante attualità la riflessione su fiducia, sfiducia e diffidenza, riconduce il debole sviluppo nel Mezzogiorno ai processi di stabilizzazione della fiducia oltre l’ambito delle relazioni parentali - come direbbe Paolo Jedlowski sociologo dell'Unical - “dove le relazioni clientelari suppliscono, di fatto, relazioni di fiducia generalizzata che si sono sviluppate debolmente”.

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Cesare Moreno a Maestri Fuori Classe


Nel pomeriggio si continua, non a caso, con l'intervento di Cesare Moreno, cofondatore e storico animatore dei Maestri di strada di Napoli. Ecco di nuovo la questione della fiducia, anche se da un'altra angolazione:

"Tutti ammiravano la sua forza, la sua ostinata risolutezza ad affermare le cose 

semplici, e lei non lo sopportava, non sopportava che gli altri avessero tanta 

fiducia in lei, non voleva autorizzare nessuno a farlo eppure lo faceva 

sistematicamente, perché ogni volta, dopo quelle che chiamavo ventate di 

ottimismo - in realtà fosche previsioni pessimistiche - con poche semplici 

parole riprendeva il cammino ed era tanto più seguita quanto più aveva dubitato 

dell'opportunità di avanzare. E poi protestava: ma chi li autorizza ad avere 

fiducia? (...)

Cesare Moreno, (a cura di) appendice a Carla Melazzini, Insegnare al principe di 


Danimarca, Sellerio, 2011
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Incontro con Federico Fubini
Tre forze silenziose dominano oggi la società italiana: la ricchezza patrimoniale di milioni di famiglie, la povertà demografica di un Paese nel quale le nascite di nuovi bambini sono sempre più rare (mentre i giovani emigrano) e la fragilità culturale evidente in una proporzione di laureati e diplomati fra le più basse dell’Occidente. 
Il modo in cui queste forze si combineranno fra loro è destinato a decidere del nostro futuro.


L’Italia di oggi è un Paese pietrificato, dove la mobilità sociale è bloccata e i discendenti di chi in passato ha costruito grandi fortune sono ancora al vertice, mentre i pronipoti delle classi popolari di un tempo sono sempre fermi sui gradini più bassi. È quanto emerge da uno studio di due ricercatori della Banca d’Italia che, confrontando la Firenze attuale con quella quattrocentesca dei Medici, hanno fatto la clamorosa e desolante scoperta che le famiglie più ricche e quelle più povere sono rimaste le stesse di sei secoli e venti generazioni fa.
Per capire come mai un Paese a democrazia matura e welfare avanzato come il nostro presenti una tale rigidità sociale, Federico Fubini ha condotto una serie di test, soprattutto su bambini e ragazzi in età scolare, per verificare quali sono i maggiori ostacoli che impediscono ai più svantaggiati di cambiare la propria condizione d’origine. Per esempio, quanta fiducia in se stessi, nella loro intelligenza, nel futuro e nel prossimo hanno gli allievi di un prestigioso liceo classico milanese e di un collegio universitario esclusivo del Nord, e quelli di un istituto professionale di Mondragone (Caserta), uno di quell’1,5% di comuni italiani in cui si guadagna di meno e dove si registra un alto tasso di criminalità? O, nel quartiere più giovane di Napoli, infestato dalla camorra, fra bambini appartenenti a famiglie che vivono nella legalità, e figli di genitori che vivono fuori o ai margini della legalità?
La risposta è sempre impietosamente la stessa e conferma l’influenza decisiva dell’ambiente nel tracciare, fin dalla più tenera età, il successivo percorso di vita: «Già a cinque anni l’attitudine a fidarsi, investire, interagire nel proprio interesse, era molto diversa in base al luogo di nascita».
A partire da questa consapevolezza, però, Fubini mostra che esistono non solo problemi radicati nella storia, ma anche soluzioni pratiche. Se l’Italia stenta a riprendersi dalla crisi economica, afflitta com'è da un debito pubblico che lievita in modo inversamente proporzionale alla crescita, dal drammatico calo delle nascite, dai patrimoni dinastici e da «una povertà educativa sorprendente per una nazione con la nostra storia», l’immobilismo sociale è un’ulteriore, inaccettabile complicazione che penalizza e paralizza le nuove generazioni. Per risolverla, è necessario che la scuola porti il suo aiuto molto presto e con più efficacia, sapendo che un asilo d’infanzia «rende più di un bond». Perché è solo nei primi anni di vita che si può cambiare una mentalità e, quindi, un destino.
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L'ABC DELLA FIDUCIA
di Marina Machì

La fiducia è un concetto senza tempo.
De Giorgi lo esplicita subito nella presentazione dell’edizione italiana del saggio di Niklas Luhmann[1].
“Scritta oltre trent’anni fa (…) in un’atmosfera sociale che non sembrava certo esaltare la fiducia: Né tra le generazioni, era il ’68. Né tanto meno, tra le classi sociali e neppure (…) tra il potere politico e ciò che allora come adesso si chiamava la società civile. Un’opera che già al suo presentarsi in pubblico si collocava al di fuori del tempo?” [2]
 “Se è vero che in autori classici come Durkheim, Simmel o, più oltre, Parsons la fiducia compare come una nozione importante, è soprattutto nell’ultimo decennio che essa va acquistando lo status di un concetto fondamentale delle scienze sociali, all’incrocio fra sociologia, antropologia, scienza politica e psicologia.”[3].
Trattandosi, quello di Roniger, di uno studio comparato, Jedlowski non può fare a meno di citare anche la raccolta curata da Diego Gambetta e “che fa risalire il proprio interesse per il tema della fiducia a una questione che riguarda l’Italia” e in particolare il Mezzogiorno, “nel tentativo di dar ragione di un problema tenace e apparentemente insolubile che travaglia l’Italia sin dalla sua unità: lo sviluppo mancato, o quanto meno distorto, della più parte delle regioni meridionali”. Insomma, la difficoltà della cooperazione. Così riconducendo alle note ricerche di Banfield, su fiducia, sfiducia e diffidenza, il debole sviluppo nel Mezzogiorno ai processi di stabilizzazione della fiducia oltre l’ambito delle relazioni parentali, “dove le relazioni clientelari suppliscono, di fatto, relazioni di fiducia generalizzata che si sono sviluppate debolmente”[4]. Una genealogia del successo del concetto di “familismo amorale”.
Una serie di coincidenze hanno fatto sì che da un anno a questa parte insegni in un istituto superiore a Senise, in provincia di Potenza, non lontano da Chiaromonte (il paesino che Edward Banfield deforma – in modo gentile - in “Montegrano”)[5]. Si aggiunga che il 29 marzo di quest’anno sul Corriere della Sera Federico Fubini pubblica un reportage “Gli anni passano. La sfiducia degli italiani, no”. Sulle tracce dello studioso di Harvard, Fubini si chiede com’è la situazione a sessant’anni di distanza, dove gli italiani, sfiduciati, si curavano della famiglia e non della collettività. Impossibile non notarlo, si tratta della “cover story” di Sette, poi ripreso e amplificato sul web da Corriere.it, più o meno concomitante con la pubblicazione di “La maestra e la camorrista. Perché in Italia resti quel che nasci”. [6]
Banfield la diceva così «Il fatto che i montegranesi siano prigionieri del loro ethos incentrato sulla famiglia, e che per questo non siano in grado di agire di concerto o per il bene comune, è un impedimento fondamentale al loro progresso economico o di altro tipo».
Fubini glossa in questo modo: “accresci più che puoi il vantaggio materiale di breve termine della famiglia nucleare, dando per scontato che gli altri faranno lo stesso. Non importa se questa assenza di fiducia negli altri comporti l’evadere le tasse in uno Stato già indebitato, parcheggiare in doppia fila in una città già soffocata dal traffico oppure pagare la camorra per disfarsi dei rifiuti tossici in un campo dove giocheranno i figli d’altri”. Approccio comparativo quello di Banfield, diacronico – nel ripeterne il gesto e la struttura delle domande sul campo – quello di Fubini. “Dovevo capire se nell’ethos dei «montegranesi» e di tutti noi italiani la fiducia e il senso civico che essa porta con sé, tre generazioni dopo, avevano guadagnato terreno contro la sfiducia e i comportamenti «amorali» che relegano il Meridione a uno sviluppo ritardato e l’Italia allo stato perenne di indefinibile anomalia europea”.
Estendendo la comparazione e confidando in un qualche passo avanti (“Forse non abbiamo più la testa appesantita dalla sfiducia tipica di una «società arretrata»”) sempre alla maniera di Banfield – Fubini decide allora di sondare gli allievi del Collegio Ghislieri di Pavia, un collegio universitario di élite, dove si entra solo con una selezione terribilmente meritocratica. Risultato: sia i loro discendenti di oggi che gli allievi del Ghislieri hanno risposto in maniera sostanzialmente uguale a quei montegranesi di sessant’anni fa. Fubini ne deduce che “la questione meridionale, emotivamente, è diventata la grande questione italiana. Non siamo più gli esseri sospettosi, gretti e diffidenti emersi dal Mezzogiorno dell’età pre-industriale. Ma per certi aspetti il Sud parla per l’Italia. E il cammino della fiducia collettiva resta più lungo di quanto non ammettiamo a noi stessi”.

Circa trent’anni prima di Banfield (nel 1928), Carlo Emilio Gadda s’immerge nel tentativo di un Racconto italiano. “Tra maggio e giugno, stende un lungo saggio, sul titolo del quale tentenna, oggi noto come Meditazione milanese”.[7] Si tratta forse di uno scritto preliminare alla tesi su Leibniz (che non discuterà mai, causa “demone dell’incompiutezza”). Qui si rintraccia una delle sue note folgorazioni: “Gli italiani, generosissimi in tutto, non sono generosi quando si tratta di pensare”[8] (da Meditazione milanese, Garzanti).



[1] La fiducia, il Mulino, 2002, (Vertrauen. Ein Mechanismus der Reduktion sozialer Komplexität, Lucius & Lucius Verlagsgesellschaft, 1968/2001), trad.it di Luca Burgazzoli.
[2] Raffaele De Giorgi, Presentazione dell’edizione italiana di Niklas Luhmann, La fiducia, op.cit.
[3] Paolo Jedlowski, Presentazione di Luis Roniger, La fiducia nelle società moderne. Un approccio comparativo, Rubbettino, 1992.
[4] Paolo Jedlowski, Presentazione, op. cit.
[5] Il libro di Banfield sul suo anno a Chiaromonte esce nel 1958 negli Stati Uniti con il titolo: Le basi morali di una società arretrata.  Si tratta del libro che vara la definizione del «familismo amorale»: “accresci più che puoi il vantaggio materiale di breve termine della famiglia nucleare, dando per scontato che gli altri faranno lo stesso”.
[6] F. Fubini, Mondadori, 2018.

[7] Christophe Mileschi, “Gadda filosofo: un precursore retrogrado”, in The Edinburgh Journal of Gadda Studies, Issue no. 5, EJGS 5/2007.
[8] Carlo Emilio Gadda, Meditazione milanese, Einaudi, 1974.


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difficile alfabeto
di Marina Machì
Vertrauen, dieses schwerste ABC
Fiducia, questo difficile alfabeto

Hilde Domin

"Fiducia, questo difficile alfabeto" era uno slogan della campagna elettorale di Paolo Palma (1996, candidato al Parlamento eletto deputato nella XIII legislatura). Massimo, che lavorava in quell'agenzia che ne curava la comunicazione elettorale (e di cui mi fidavo al punto di sposarlo), mi svelò che in realtà si trattava di una citazione.
Era un verso di una poetessa tedesca, poco conosciuta in Italia, ma bravissima e parzialmente tradotta da Gio Batta Bucciol (grazie all'opera meritoria di Gianni Scalia che in quegli anni andava disegnando quel gioiello di collana editoriale chiamata "in forma di parole"). A me piacque, non era uno slogan come tutti gli altri e Paolo Palma col suo fare pensoso e la faccia da cagnolone buono lo indossava perfettamente. C'è poi da dire che i testi della Domin mi ricordavano il mio amato Pedro Salinas. Più tardi realizzai che l'associazione d'idee era più che fondata[1].
Ecco la domanda, per come se la pone Hans-Georg Gadamer:
"si deve proprio apprendere la fiducia? Si può apprenderla come s'impara a scrivere? Come se uno potesse vivere senza fiducia; nell'altro che uno capisce, nelle parole che tutti conoscono, nel mondo che c'è in loro? Eppure qui la fiducia è definita come qualcosa che si deve apprendere e dall'inizio. Come può essere andato perduto quest'elemento semplicissimo che sta alla base di tutto ciò che dura nella vita, di ogni discorso durevole: l'ABC. Lo si può semplicemente reimparare? Come qualcosa di cui non siamo esperti o che abbiamo disimparato?”.
Così scriveva Gadamer nel 1982 [2].





[1] Hilde Löwenstein, conosciuta come Hilde Domin (Colonia, 27 luglio 1909 – Heidelberg, 22 febbraio 2006). Nata col nome Löwenstein, Hilde decise di cambiarlo in Domin dopo l'esilio trascorso nella Repubblica Dominicana. I tempi oscuri della persecuzione razziale (die grauen Zeiten) l’avevano allontanata da Colonia, sua città natale ed infine era giunta a Santo Domingo, ai margini del mondo. In Germania aveva iniziato gli studi universitari ed aveva potuto ascoltare le lezioni di Jaspers e Mannheim, acquistare un credo politico ed anche perderlo prima di iniziare i Wanderjahre. Il viaggio d’esilio che passando per Roma e Firenze, dove si sarebbe laureata in Scienze politiche, l’avrebbe portata in Inghilterra e quindi a Santo Domingo. Gio Batta Bucciol, “Viaggio attraverso la parola”, in “In forma di parole”, Nuova serie, anno primo, numero secondo, Marietti, 1990.

[2] Hans-Georg Gadamer, “In forma di parole”, nuova serie, anno primo, numero secondo, Marietti, 1990 (p. 214).



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Difficile alfabeto
Retorica della fiducia
a cura di Marina Machì

 978-88-88637-78-5

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Luglio 2018

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