Il cinghiale pre-foucaultiano
ho rimaneggiato leggermente il mio intervento per "Stop cinghiali"
(giovedì 19 febbraio, chiostro di S.Domenico, Cosenza)
(giovedì 19 febbraio, chiostro di S.Domenico, Cosenza)
photo: Michele Giacomantonio
"La satira e
internet: mezzi superstiti della libera comunicazione?"
(bella questione. “Mo ce penzo. Mi vado a fare 'na pisciata
e ce pienzo")
Sinceramente non credo sia mai esistita una comunicazione
libera. Libera da cosa? Dal potere e dai suoi condizionamenti? Che fluisce
libera scevra da resistenze, interessi non coincidenti, conflitti? Già nel 1922
Walter Lippmann sottolineava come il pubblico dei media di fatto non si trovi
dinanzi agli eventi reali, ma a pseudo-eventi".
Sin dalla selezione e rappresentazione quotidiana delle
notizie, i media modellano la realtà sociale e sono in grado di strutturare i
nostri discorsi, i nostri pensieri. Ordinano e organizzano il mondo per noi,
inducendoci a prestare attenzione a certi eventi piuttosto che ad altri. Immancabilmente
ci dicono intorno a quali temi pensare qualcosa. Per stare sul fantasma della
libertà giornalistica, è il concetto di agenda setting. Tra le enne notizie del
mondo, nell'infinita notiziabilità del mondo, se sono Carchì Hebdo, mi frega
solo di Padre Fedele e di Bergamini. Per carità, cold case di sicuro interesse,
meritevoli di tutti gli approfondimenti del caso, che nascondono superficialità
e palesi errori processuali e giudiziari, ma sto pure metacomunicando che del
resto (ed è un bel resto) je m'en fous. Mi nni futtu.
Poi magari sparo a zero su tutti, panoramico su tutte le
lobby e il malcostume, così mi faccio una parvenza di neutralità (che è un
altro fantasmone, secondo forse solo a quello della libertà), l’immagine del
mastino da guardia imprevedibile.
Già la parola non è libera, surdeterminata com'è dalla
logica del significante, che non a caso i linguisti definivano
"catena". Barthes diceva che la lingua è fascista, Lacan che
l'inconscio stesso è strutturato come un linguaggio, linguaggio che assoggetta
i parlesseri che siamo, che l'inconscio altro non è che l'inciampo nel
linguaggio, come svista, papera, motto di spirito, atto mancato, sintomo. Figuriamoci
poi il discorso giornalistico. Si va un po' meglio quando appare qualche marca,
qualche strillo, tipo "Il Manifesto. Quotidiano comunista",
"L'Unità quotidiano fondato da Antonio Gramsci", oppure - per stare
alla contemporaneità - Il Fatto quotidiano che ostenta in testata il fatto di
non percepire fondi pubblici (vale a dire statali). In quei casi si dichiara
perlomeno il luogo di produzione e di selezione delle notizie, si confessa una
appartenenza, una visione del mondo o – nel caso de il Fatto – un buon punto di
partenza.
Fa forse eccezione il discorso pubblicitario, che pur essendo
ontologicamente assoggettato, pur essendo il più schiavo del marketing e di
obiettivi aziendali, perlomeno è l'unico a risultare onesto, proprio nel
confessare ab origine, già nel format che ci dice "io sono
pubblicità" e che ce la fa riconoscere come tale, che c'è chi paga. Per
accorgersi di questa piccola verità, ci vollero Roland Barthes e Edgar Morin,
già negli anni '70, ma noi italiani siamo ciuccioni e sistematicamente in ritardo.
Così esplorata velocemente la fantasmatica della libertà e
della neutralità, vorrei soffermarmi su un paio di punti, di questioni che mi
hanno punto, nella storia del cinghiale. Il primo lo intitolerei “più realista
del re”, ovvero un ammonimento per conto terzi. Umberto, come avrebbe detto Giacomo
Mancini senza nominarlo,”lo stampatore di Montalto” (non ostento amicizia ma
tengo conto di essere stato suo compagno di classe, in ricordo dell’appello
scolastico che vedeva la D dopo la C, De Rose subito dopo Celani), si esibisce
in un consiglio amichevole, sedimento di vita vissuta, una esortazione da
prevenzione primaria, senza che il senatore Gentile (che troppo facilmente facciamo
coincidere col “Cinghiale”) ne sappia niente. Certo è portatore di interessi e
vedrà molto mal volentieri che la stampa locale si occupi del figliolo per
questioni giudiziarie, ma Umberto fa di più. E nella sua naïveté si spinge a
evocare il terribile fantasma del cinghiale ferito. Uno spasso, se non fosse
per i problemi che ha provocato a troppe persone. L’altro punto è il ricorso al
luddismo, al sabotaggio, al guasto meccanico, alla rotativa inceppata. Entrambi
i punti appaiono pre-foucaultiani. Nel senso di un arretramento evidente
rispetto a forme repressive più raffinate e polimorfe.
(...) la meccanica del potere, e in particolare quella che è
messa in gioco in una società come la nostra, è essenzialmente dell'ordine
della repressione? Il divieto, la censura, la negazione sono le forme secondo
le quali il potere si esercita in modo generale forse in tutte le società, e
sicuramente nella nostra? (...) non si tratta di dire: la (libertà di stampa),
lungi dall'essere stata repressa nelle società capitalistiche e borghesi, ha
beneficiato al contrario di un regime di libertà costante; non si tratta di
dire: il potere, in società come le nostre, è più tollerante che repressivo
(...) come un nuovo episodio nell'attenuazione dei divieti o come una forma più
astuta o più discreta del potere.(p.16)
Tutti questi elementi negativi - divieti, rifiuti, censure,
negazioni - che l'ipotesi repressiva raggruppa in un grande meccanismo centrale
destinato a dire di no, sono probabilmente soltanto degli elementi che svolgono
un ruolo locale e tattico in una trasposizione in discorso, in una tecnica di
potere, in una volontà di sapere che sono lungi dal ridursi ad essi. (p,17)
Quel che è caratteristico delle società moderne non è che
abbiano condannato la libertà di stampa a restare nell'ombra, ma che siano
condannate a parlarne sempre, facendolo passare per Il segreto. (p.36)
La proibizione – canonicamente - ha tre forme: affermare che non è permesso,
impedire che sia detto, negare che esista. (…) una logica a catena (…) che
connette l’inesistente, l’illecito e l’indicibile in modo tale che ciascuno sia
contemporaneamente principio ed effetto dell’altro: di quel che è proibito non
si deva parlare finché non sia annullato nel reale; quel che è inesistente non
ha diritto a nessuna manifestazione, nemmeno nell’ordine del discorso che ne
enuncia l’inesistenza; e quel che va taciuto viene bandito dalla realtà come
ciò che è vietato per eccellenza. (p. 75).
Confesso che nelle prime citazioni ho sostituito le parole
“sesso” e “sessualità” con “libertà di stampa” e onestamente non mi sembra che
il prodotto abbia perso senso e efficacia.
Il discorso ovviamente è molto più articolato (dico quello
di Foucault). Divieti, censure, macchine tipografiche che s’inceppano, ma prima
– lo sappiamo benissimo - ci sono i più rarefatti (ma non per questo meno
perniciosi) misconoscimenti, gli incoraggiamenti per gli ubbidienti, il rendere
la vita difficile a chi si ostina in una causa di verità. E’ il mobbing a lungo
praticato nei confronti di Alessandro. Sentirsi minacciati, la paura di perdere
il lavoro (come ha efficacemente raccontato Carlo Parisi poc’anzi, anche quando
non percepisci un euro da più di tre anni: che lavoro è se non ti pagano per
anni? In quale perversa logica si fonda il timore di perderlo?).
E’ un arretramento pure nostro, nel non tener conto
dell’elaborazione foucaultiana sulla microfisica del potere. Cosa che spesso ci
fa trascurare la violenza, la tirannia e la mafiosità – solo per dirne uno tra
i più volgari e evidenti – della dinamica universitaria.
Suona buffo che lo stampatore, raccogliendo evidentemente le
pressioni del diretto interessato o dell’influente paparino, prima evochi lo
spettro del cinghiale pericoloso soprattutto se ferito (perché mai correre rischi di rappresaglia, “e tutto
picchì? Ppi ‘nu chiurutu ‘ i culo” è il succo della moral suasion) e poi
ricorra al guasto della rotativa.
Il Cinghiale non esiste, certo non più del lupo cattivo o
del gatto mammone, è piuttosto un dispositivo, una macchina. Al limite è la personificazione
di una metafora, di un pasto pesante. Contro il quale spesso è bastevole
l’assunzione dell’effervescente Brioschi.
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